PRESENTAZIONE DE “IN NOMINE PATRIS” DI PUPI AVATI (30/04/1994)
sabato 30 aprile 1994

Perchè sono qua? Mi domando cercando invano il pulsante del campanello alla porta della sagrestia. Mi rassegno ad usare un vecchio battacchio. Forse per il Magnificat, mi rispondo. Sono puntuale, le quindici e trenta di uno dei sabati di questo aprile. Nessuno viene ad aprire. Mi sento felice, libero. Ho mantenuto la promessa, posso andarmene con la coscienza a posto. Sto per riguadagnare la libertà quando il volto di lei, Anna Cuocolo intendo, si frappone fra me e la mia vigliaccheria.
“Grazie per essere venuto”, dice sorridendo.
“Prego”, e siamo dentro, in una sagrestia buia.
“Stiamo per iniziare” dice e sorride ancora. Raggiungiamo la chiesa. Dentro una luce grigia, dimessa, che confonde ogni forma.
Banchi addossati alle pareti a slargare per quanto possibile uno spazio centrale. Inginocchiatoi ingombri di borse, di tute, di scarpe, di cappotti. Gli altari dei santi cupi, forse stupefatti o infelici per quella intrusione, non una candela accesa, tutto intriso da questa luce che pare mortificare ogni entusiasmo.
Sono lì dentro a cercarmi un posto fra i banchi, un posto appartato. Mi sento osservato. Ricambio gli sguardi che mi raggiungono. In alcuni è incluso un sorriso, in altri diffidenza, ballerini fasciati in veli colore ruggine piroettano scalzi al centro della navata. Stipati in bell’ordine all’interno di una cappella, disposti come in una foto di gruppo, gli uomini e le donne del coro. Tutti con gli spartiti in mano. Le donne con le borse assicurate al braccio, gli uomini con i giornali sportivi infilati nelle tasche.
Facce bellissime di chi è lì con un compito per una ragione.
Poco oltre, a ridosso della balaustra dell’altare maggiore, i musicisti e altri cantanti, attrezzati di tamburi, fisarmoniche, flauti e nacchere. Gli strumenti dei matrimoni in campagna dei nostri nonni, di un’Italia antica e fuggita via.
Tre bambini, dal parapetto dell’organo guardano giù, come gli angeli di stucco, verso di noi. Anna Cuocolo che si aggira rassicurando tutti, soprattutto se stessa, su ciò che sta per accadere.
Ma non ci sono suoni, nè voci, solo bisbigli.
Sento l’impaccio di quell’attesa. Pare che tutti, io stesso, stiamo cercando una sorta di confidenza con quel luogo che nel nostro immaginario non è luogo di prove ma luogo di inginocchiamenti, di attese di Dio, di organi, di incensi, di funerali, di messe solenni.So che per tutti loro è un momento di verifica, importante.

La prima vera prova d’insieme, la conferma o la smentita di un lungo lavoro di preparazione svolto altrove, in piccoli spazi appartati, ogni gruppo per proprio conto, chiamati per la prima volta a formare un insieme.
Ecco perchè tardano tanto a cominciare. Perchè protraggono così tanto questa attesa in cui la possibilità di illudersi è ancora praticabile. So bene cosa significa risvegliarsi bruscamente da un sogno, accorgersi che tutto ciò che avevi immaginato, non produce in realtà quell’emozione forte assoluta sulla quale avevi contato. È paura che conosco, che condivido.
Poi, all’improvviso, su quell’indecifrabile bisbiglio si impone la voce di lei: “bene, andiamo!” dice.
E io provo un brivido perchè’ so cosa significa.
Per pochi istanti tutto è silenzio, tutto è immobile.
La stessa Anna pare attendere un segnale, una conferma, una rassicurazione, che le venga dal luogo, che le venga da quei rapidissimi scambi di sguardi con Nando Citarella, il tenore della compagnia di Canto o con i “suoi” ballerini, quelli che l’hanno seguita in tante avventure.
E ad un tratto tutto accade, come dal nulla, scaraventati in un altrove misterioso ed imprevisto: i suoni degli strumenti, le voci dei cantanti, i movimenti dei ballerini. Tutto pare animato da un sincronismo perfetto, da una violenta, inesprimibile energia, che mi aggredisce trovandomi impreparato ad un impatto così travolgente. Avverto dentro di me una commozione profonda. Come una sorta di grande riconoscenza. Dalle vetrate là in alto la luce non e’ più così grigia. C’è qualcosa che scintilla dentro quella Chiesa. Che riverbera la luce del sole. Sono gli occhi di quegli uomini e di quelle donne, di quei ragazzi e di quelle ragazze. Per un attimo so che lì dentro tutti sono felici, e la qualità della felicità è la stessa, molto intensa, autentica, profonda. Inesprimibile.
Ballano, cantano, suonano i loro tamburi e le loro nacchere. Sanno di appartenere ad un mondo più vasto, ad un insieme armonico, sentono di appartenere a QUALCUNO, di essere amati. E’ questa la sensazione che la preghiera autentica deve dare: la più’ inattesa e sorprendente. Quella che dà senso alla mia Fede.

P. Avati